Documentario : Palazzo Ducale la sua storia ... il suo futuro



IL PALAZZO DUCALE E PIEDIMONTE D’ALIFE 

(In Barbiero Anna, Arte e storia nel palazzo ducale di Piedimonte d’Alife, 2000, pp. 5-11)

Il palazzo dei Gaetani dell’Aquila di Aragona torreggia maestoso nel quartiere medievale di Piedimonte d’Alife, ora Matese. Nonostante sia da anni in malinconico abbandono, praticamente disabitato e privo di manutenzione, per la sua posizione e la sua mole severa è certo la più imponente testimonianza storico-architettonica di un antico e notevole comparto edilizio peraltro non privo di altri monumenti, come la chiesa gotica di S. Giovanni che svetta sul borgo, o la basilica di S. Maria, o il convento domenicano.

Continua così a testimoniare i fasti di una delle più antiche e cospicue famiglie italiane, imparentata con le più nobili casate del Regno, che vanta nella sua secolare storia pontefici e condottieri, vicerè, letterati e scienziati.

Nella sua secolare evoluzione il palazzo ducale ha, per così dire, registrato gli eventuali positivi e negativi che hanno interessato Piedimonte: ha accolto ospiti illustri e subito saccheggi, raccolto le rendite feudali e distribuito arte, cultura e letteratura.

È, dunque, testimonianza importante e forse unica del passato della città, oltre che della dinastia che per secoli la ha governata, sicché la sua storia in pratica coincide con quella di Piedimonte medievale e va esaminata nel contesto di questa.

L’esame delle superstiti case e chiese medievali del quartiere di S. Giovanni documenta che lo steso ebbe origine, o quanto meno si monumentalizzò, nell’epoca gotica alla quale senza dubbio rimandano le opere d’arte e le ogive della Chiesa di S. Giovanni, di Palazzo de Forma, di S. Biagio, mentre non risultano testimonianze architettoniche di epoca longobarda o normanna.

Tale dato concorda pienamente con l’esame delle più antiche fonti documentali, ed infatti la prima menzione del toponimo Piedimonte data all’anno 1020 ed è contenuta nel placito della lite tra Vito, Vescovo di Alife, e l’Abbazia di S. Maria in Cingla, sita in Ailano.

Nell’antica pergamena, edita dal Gattola e tuttora conservata a Montecassino, sono menzionate molte località del territorio alifano e tra queste alcuni pezzi di terra che il monastero cedeva per combenientiam al Vescovo.

Precisamente vennero date

Quinque peciis de terris pertinentes nominatae suae ecclesiae monasterii, que sunt videtur in nominate Alifane finibus, cultis et incultis, una ex ipse in loco Sanctu Columbanu, una cum ipsa ecclesia S. Columbani inique constructa, et alia in loco Brellanicu, et tercia ex ipse in loco Sipiczanu, quarta in loco Scarpellani, quinta vero IN LOCO AD PEDE DE MONTE ubi dicitur ad pentuma et petra cupa erga flubio Torano.

Erano terre, coltivate o incolte poste nei confini del territorio di Alife: l’una presso la chiesa di S. Colombano, l’altra presso un logo detto Brellanico, la terza a Spicciano,la quarta nel luogo detto Scarpellani e “la quinta nel luogo ai piedi del monte che viene chiamato alla Pentima e Pietra Cupa presso il fiume Torano”.

Dunque nel 1020 il toponimo di Piedimonte è nell’uso ma non è predominante ed univoco se a differenza delle alte località, deve essere specificato con ulteriori riferimenti ai toponimi Pentima (= luogo scosceso, nome ancora conservato per indicare la zona dell’abitato prossima alla sorgente del Torano) e Pietra Cupa, presso il fiume Torano.

Che dove oggi è Piedimonte non vi fosse nel 1020 un abitato lo si ricava non soltanto dalla definizione del sito come locus = località e non vicus o casale ma anche da un documento riferito a Spicciano, questo sì definito vicus, in altro placito relativo ad una lite tra S. Maria in Cingla e i conti di Alife. Siamo nell’anno 999 d.C. -giusto mille anni or sono- e viene descritto un latifondo di Spicciano con i seguenti confini:

De prima parte fine via que pergit per Vicum ad ipum Toranum, de seconda parte fine alia via, que vadit circa Rabe e pergit ad Ecclesia S. Angeli. De termia parte fine via, quae est sub ipso Torum. De quarta parte fine alia via, quae vadit et coniungit se in ipsa via que est prioras fines.

Il terreno era dunque tutto compreso tra strade che si originavano dal villaggio e vi tornavano. Strade che, come l’abitato, tutt’oggi esistono e consentono di ripercorrere senza dubbi il perimetro del confine descritto nel documento.

Confine che, per il primo lato, coincide con la strada che dal villaggio di Spicciano raggiunge il Torano, da qui risale lungo la rava = corso d’acqua, sino alla chiesa di S. Michele Arcangelo che era nei pressi della sorgente, ma sull’altra sponda, poi corre sino alla rupe dalla quale il Torano sgorga e ne deriva il nome (ipso Torum) ed infine la strada torna indietro sino a chiudere il circuito riallacciandosi al punto di partenza. Basta uno sguardo alle carte topografiche per verificare tale confine che certo raggiungeva la zona ai piedi del monte dove sorgeva la chiesa di S. Arcangelo ovvero le “Pintime del ponte di S. Arcangelo” . È dunque documentata la chiesa ed il nome Torum del monte ma nulla autorizza a parlare di un abitato.

Pertanto anche se esisteva in epoca tardo-longobarda una chiesa dedicata a S. Michele e se non lontano, laddove è oggi il piazzale della stazione ferroviaria di Piedimonte, sorgeva il Monastero di S. Salvatore, la zona del quartiere di S. Giovanni alla stregua di tali fonti non era abitata ma era solo un locus, il locus ad pede de monte.

Era però attraversata dalla principale via che da epoca sannitica e romana portava al Matese e superato l’altipiano del lago scendeva verso Sepino e Boiano. La strada romana fu vista e descritta dal Maiuri e tuttora la via che da Campochiaro sale al Matese è detta Via di Alife, con nome certo anteriore al formarsi dei borghi autonomi di S. Gregorio, Castello e Piedimonte. Diversamente si sarebbe detta ad esempio via di S. Gregorio, o di Castello o di Piedimonte.

La via antica in epoca medievale fu presidiata all’altezza dell’abita di Castello, che si addensò al riparo della mura, ma anche più in basso fece da generatrice all’abitato medievale di Piedimonte, nato, come crediamo di aver dimostrato sopra, dopo il 1020 e dunque dopo l’epoca tardolongobarda e protonormanna.

Assunto come terminus post quem il 1020 è però da dire che non vi è sicurezza alcuna che il quartiere di S. Giovanni sia normanno, come spesso viene ritenuto.

Non abbiamo infatti resti di epoca normanna: ad esempio e torri comparabili a quelle di Castello d’Alife o di S.Angelo Raviscanina menzionato nelle cronache coeve e dunque sicuramente esistente e fortificata.

Invece la torre di Castello d’Alife, priva di scarpa e di difesa piombante ed anche per tessitura muraria comparabile a quelle del castello di S. Angelo Raviscanina, sembra normanna.

Di un abitato normanno dov’è l’attuale borgo medievale non vi è menzione neppure nelle fonti e nelle cronache che pure ricordano, ad esempio, Rupecanina, Dragoni e S. Salvatore Telesino. Inoltre Alife normanna è ancora una grande città e con Rainulfo Duca di Puglia diviene una delle capitali regionali dell’Italia meridionale come Napoli e Palermo.

Anche dopo il saccheggio datale da Ruggero Alife non decadde e, sebbene nel suo territorio vadano ricompresi quelli dei casali poi resisi autonomi, è nel Catalogus Baronum menzionata come feudo di ben XX militi posseduto da Malgerio Sorel.

Occorre qui chiarire che il Pedemontis feudum II militum che compare nel Catalogus Baronum non è il nostro Piedimonte bensì Roccapiemonte in Provincia di Salerno posseduto da Novellonus de Bussono insieme a Ceppaloni, Altavilla, Pannarano, Penta, S. Giovanni, frazione di Ceppaloni.

I De Bussono ebbero terre nell’alifano e dintorni ma non pare possibile smentire la Jamison ed il Cuozzo sull’identificazione del Pedemontis del Catalogus con Roccapiemonte.

D’altro canto, anche a tenere ferma in via di mera ipotesi l’identificazione proposta dagli eruditi locali del Pedemontis e del quartiere di S. Giovanni con la nostra Piedimonte appare impossibile che in un secolo questa fosse cresciuta tanto da divenire non solo feudo autonomo ma potesse con un suo abitato distinguersi dal quartiere di S. Giovanni col quale, invece la Piedimonte medievale pienamente coincideva. Dunque pare improbabile che in quest’epoca protonormanna, nella quale Alife era ancora fiorente e potente, nasca Piedimonte che si alimentò del disfacimento della città madre. E durante le guerre tra Rainulfo e Ruggero, allorquando vi fu l’esigenza di presidiare la via del Matese si fortificò l’attuale Castello, rialzando le mura megalitiche sannitiche ed addossandovi la torre tuttora conservata.

È in età Federiciana-Angioina che appaiono con certezza l’abitato e di feudatari di Piedimonte e riferimenti nelle cronache, e tali dati sono compatibili con l’architetture gotiche del borgo medievale. Così ad esempio nello statuto emanato dall’imperatore Federico II per prescrivere la riparazione dei castelli imperiali del Giustizierato di Terra di Lavoro e Molise e ripartire gli oneri tra le popolazioni finitime si legge

Castrum Alifie reparari potest per homines ipsius terre, Pedemontis et Baye.

Dunque il restauro del castello di Alife incombeva agli abitanti della città di Alife, di Piedimonte e di Baia e gli uomini di Piedimonte sono distinti, quali destinatari dell’obbligo, da quelli di Alife.

Nelle Rationes Decimarum degli anni 1308-1310 si legge al n. 2027 “clericis Pedemontis pro beneficis suis que valent unc. IIII tar. XXVI e mezzo, solvit tar. VIII”. Nella decima dell’anno 1325 l’abitato appare dotato di varie chiese e di un territorio poiché gli esattori

receperunt ab archipresbiteri et clericis castri Pedismontis de Alifia pro fructibus suis ecclesiarum territori castri Pedemontis alifane diocesis et obventionibus suis tar. XVIII.

Sarà dunque il caso, allo stato attuale degli studi, abbandonare le ansie di retrodatazione sia la suggestione del Trutta che voleva Piedimonte fiorito addirittura nel IX secolo sia quella che lo vuole nato in epoca normanna.

Occorre poi non farsi ingannare dalla dizione castrum dei documenti medievali, definizione con valenza giuridico-amministrativa per indicare nel medioevo un abitato non ornato dall’onere del vescovato, o del titolo di città, ed evitare di confonderlo con castellum che, invece, indica un edificio predisposto alla difesa, quello che noi chiamiamo castello.

Nel caso di Piedimonte sino a che documenti d’archivio, fonti storiche inoppugnabili o scoperte archeologiche non provino il contrario si dovrà, dunque, rifiutare il luogo comune che il quartiere di S. Giovanni abbia avuto un circuito murario e che il palazzo ducale sia la trasformazione di un preesistente castello.

Delle mura infatti non vi sono documentazioni archeologiche o documentarie ma solo asserzioni di eruditi locali, tanto apodittiche quanto non provate che non reggono al vaglio di una disanima critica. Quanto al Palazzo Ducale ove non bastasse l’appellativo di “palazzo”, e non castello, a suggerire prudenza sarà sufficiente dare un’occhiata alla pianta dell’edificio per rendersi conto che nella stessa non appaiono ambienti che per struttura, spessore delle mura o presenza di scarpe o di apparato piombante o tecnica muraria, possano ragionevolmente identificarsi come torri poi inglobate nel palazzo.

Né è diagnostica la pianta quadrata che, ad esempio si ritrova anche nel Palazzo Ducale di Pietramelara.

Le cose non vanno meglio studiando la relazione tra il supposto castello e il quartiere medievale di S. Giovanni. Infatti il castello, contro il normale costume, solo in questo caso, sarebbe stato edificato non a monte dell’abitato ed in alto, ove per intenderci è la chiesa di S. Giovanni, ma in basso, in posizione panoramica e forte per i salti di quota, ma inidonea a difendere l’abitato o anche a sorvegliarlo.

E poi l’esistenza di un circuito di mura, da taluni ipotizzato e persino disegnato, a difesa del quartiere di San Giovanni è ben lungi dall’essere provata.

In primis non ve ne sono indizi sul terreno o nelle abitazioni. Infatti non è dato vedere, per intero od in frammenti alcun muro antico o torre e nulla impedisce di ritenere che il muraglione distrutto nel settecento presso la chiesa di S. Maria avesse funzione di contenimento e sostruzione anziché difensiva. E del resto, mentre nulla indizia una natura difensiva i canonici lo rifecero su pressione del feudatario proprio ad evitare danni alla chiesa.

L’assenza di resti monumentali e le incongruenze delle ipotesi ricostruttive suggeriscono ragionevole prudenza sino a nuove scoperte.

Naturalmente non può escludersi del tutto che l’abitato nato, a giudicare dalla pianta, in modo spontaneo da case aggregatesi lungo la via che dai Seponi conduce a Castello, si sia strutturato nel tempo con edifici addossati tra loro per ragioni di economia e sicurezza e sia stato poi dotato di porte in funzione daziaria e anche di protezione.

È ipotizzabile anche che in S. Giovanni vi fosse anche qualche casa-fortezza per dimora e tutela delle famiglie più cospicue e o per controllo del transito. Ciò è possibile ma non basta a fare di un casale un fortezza e di un palazzo un castello.

Poi non si spiega perché solo a Piedimonte sarebbero completamente scomparse le da tutti ipotizzate ma da nessuno mai viste e documentate mura e torri, mentre negli altri borghi fortificati prossimi dappertutto si vedono strutture difensive superstiti.

Poiché solo a Piedimonte, S. Potito, Sepicciano e S. Gregorio, ovvero negli antichi casali di Alife, non è dato trovare resti di mura o torri o castelli (a differenza di quanto avviene a Castello d’Alife e nei centri prossimi di Ailano, Castello di S. Angelo-Raviscanina, Baia, Gioia, Faicchio) la spiegazione più ovvia e probabile è che tali casali, come dice il nome, non abbiano mai avuto le mura.

È però innegabile che l’impianto del Palazzo Ducale, peraltro analogo a quelli di altri palazzi rinascimentali, come il Palazzo Ducale di Pietramelara, per mole severità e imponenza richiami suggestioni di fortezza e ciò spiega la communis opionio ma non può giustificarla.

Se, pertanto, è non provato ed anzi improbabile che il palazzo ducale di Piedimonte sia evoluzione di una fortezza è però certo che siamo in presenza di una imponente dimora gentilizia via via ingrandita e arricchita da una delle più cospicue casate d’Italia.

Nel suo lavoro l’Autrice con puntualità ci accompagna nell’edificio descrivendolo in modo tecnico, ma a tutti accessibile.

Ne mostra le fasi, gli elementi architettonici più antichi: dal bel portale gotico alle modificazioni cinquecentesche, ricostruite e datate sulla base delle evidenze superstiti, con dovizia di argomenti.

Ella ha poi documentato con carte, talora citate ma praticamente inedite, l’ampliamento del palazzo e la sua trasformazione settecentesca.

Ma soprattutto ha innalzato il ricco patrimonio di affreschi, dipinti e decorazioni, interpretando i soggetti e formulando con attendibilità le attribuzioni ad artisti di scuola napoletana richiamati a Piedimonte dal mecenatismo dei Gaetani.

Tale lavoro, per la prima volta tentato e compiuto in modo documentato ed egregio, avrebbe già di per se giustificato la pubblicazione dell’opera che, però, si segnala soprattutto per aver ricostruito e reso a noi evidente intorno ad Aurora Sanseverino ed al consorte Nicola Gaetani il fervido clima culturale che nel campo della pittura, del teatro, della musica, della poesia, della filosofia e pedagogia li vide protagonisti attivissimi e non secondari.

Il feudalesimo fu anche questo e se nelle corti angioine e aragonesi furono tenuti in onore poeti, artisti e letterati già nel Quattrocento feudatari si dedicarono alle arti come alle armi e ai pubblici affari.

Rinviamo alla compiuta esposizione dell’Autrice per l’illustrazione di opere e di artisti non senza rilevare che è addirittura impressionante la mole di quadri di grandi autori che i Gaetani seppero radunare nel Palazzo di Piedimonte e lo spessore dei loro corrispondenti, da Matteo Egizio a Giambattista Vico.

E la loro erudizione non rimase sterile ma discese per i rami se è vero che don Raimondo De Sangro, Principe di S. Severo, era figlio di una Gaetani di Piedimonte e si recava nel palazzo dei nonni come è ricordato dal Trutta che con lui compì una ascensione sulla vetta del Matese, narrata con magistrali parole.

 



Raffaele Marrocco

Memorie Storiche

1926

Cap. XXII - EDILIZIA ED OPERE PUBBLICHE

(le seguenti pp. 200 e sgg. sono tratte dal lavoro multimediale di Valentino Nassa realizzato nell’estate 2005)

SVILUPPO EDILIZIO – Negli edifizi e nelle opere pubbliche ci è dato scorgere non soltanto tracce del nostro passato storico, ma eziandio una prova dell’attività e civiltà della popolazione.

La nostra Piedimonte, partendo dall’antico borgo (Rione S. Giovanni) si è andata man mano estendendo, fino a diventare una cittadina moderna. La trasformazione, iniziatasi sul tramonto del Sec. XV, si accentuò successivamente, quando – terminata il castello la sua funzione storica – la popolazione sentì il bisogno di espandersi, di aver aria e luce, muovendosi verso la parte pianeggiante, ove fabbricò nuovi e più comodo edifici, costruì nuove strade e nuove piazze, mutando, così, poco per volta, quella che era l’antica topografia cittadina. E con i nuovi bisogni e con lo sviluppo delle industrie, specie nei Sec. XVII e XVIII, Piedimonte compì il suo ingrandimento.

Sconforta, però, il vedere oggi alcuni antichi edifici o malamente rifatti o ridotti in stato di abbandono.

È bene occuparci anche di essi, non per altro, per serbarne il ricordo. Ma sarebbe anche meglio che la Commissione Edilizia ponesse maggiore interesse nella sistemazione ed abbellimento di certe case, specie quelle delle vie principali, per aversi così un tutto armonicamente estetico.

PALAZZO GAETANI – L’antico castello feudale – oggi palazzo Gaetani – munito, un tempo, di torri e di merli, è l’edifizio di più vasta mole che vanti Piedimonte. Su di esso circolano ancora strane e misteriose leggende. Si dice che fu teatro di drammi e di avvenimenti paurosi; che fu alcova di amori violenti; che ivi danze e conviti si svolsero in una regale sontuosità; e che nel trabocchetto, ora murato, finivano i vassalli importuni... Ed è circondato di tante e tante altre leggende, che la fantasia popolare, tramandandole, ha trasformate, ingrandite e rese terrificanti.

Oggi l’antico castello, perduta la sua suggestiva caratteristica, è una dimora corredata di tutte le comodità di una vita dilettevole.

Il portale principale, ad oriente, è opera del XVI Sec.; quello secondario, a settentrione, prospiciente nel Largo di S. Maria Vecchia, conserva una magnifica architettura del Sec. XV. Entrambi sono in travertino.

Il primo ha delle bugnature quadrate, e negli angoli del frontespizio due grandi rosoni in altorilievo. Sopra il frontespizio campeggia lo scudo, pure in travertino, raffigurante l’arma della Casa, inquartata con quelle delle famiglie dell’Aquila, d’Aragona e Corigliano.

L’altro portale, ad arco depresso, ha tutti i caratteri spiccati della scuola napoletana del periodo durazzesco. Negli angoli superiori del frontespizio, tra il riquadro esterno e l’arco, vi sono scolpite due figure, una umana, l’altra di animale. In alto, poi, vi è infisso altro scudo della Casa, senza l’arma di Corigliano.

Dal portale principale si accede nell’atrio, al cui centro s’erge un’artistica fontana in travertino, formata da una vasca, da cui si eleva una colonna con largo bacile in alto, e da un aggruppamento di quattro aquile reali, uscenti dalla vasca medesima.

A destra dell’atrio vi è lo scalone a due rampe che immettono in un porticato dal quale si accede al primo piano dal lato destro, e al secondo, dal lato sinistro.

Niccolò Gaetani, Principe di Piedimonte, fu quegli che operò numerose trasformazioni al palazzo, distruggendo tutta l’architettura degli antichi tempi.

OPERE D’ARTE – In questo palazzo – trasformato come si è detto nei primi anni del Sec. XVIII, specialmente con la costruzione di tre appartamenti, dal salone principale al giardino, come risulta da un atto in data 26 luglio 1700 per Not. Ciccarelli – convennero, chiamati da Niccolò Gaetani, architetti, scultori e decoratori napoletani, che fecero dei portali interni in alabastro, vôlte di stucco, quadri ed affreschi. Un salone a primo piano contiene, infatti, una serie di ritratti dei più insigni antenati di Casa Gaetani; altre sale, quadri religiosi e profani, affreschi riproducenti episodi storici, mitologici e scene campestri, e tele di fiori, frutta e cacciagione.
Tra gli artisti che qui allora convennero, Francesco Solimene tenne il primato. Il De Matteis, il Loth, il Cusati, il Nani, il Brandi, il Rossi, il Martoriello, il De Dominicis, l’abate Belvedere, e, tra i dilettanti, il Giovo e lo stuccatore Catuogno, gareggiarono ad abbellire la sede del Principe, stimato per uno dei più nobili mecenati dell’arte Oltre ai ritratti di Niccolò Gaetani e di Aurora Sanseverino, il Solimene dipinse un’Aurora – dal nome della Principessa con gli Amorini che preparano il Carro tra le nubi, con il vecchioTritone, con la Fatica nuda, in piedi, e col Sonno che cade dal letto; Paolo De Matteis svolse le favole di Apollo e di Dafne, di Pane e di Siringa, intorno alle quali lo stesso Solimene dipinse Amorini ed ornamenti; Onofrio Loth ritrasse indovinati quadri di fiori e frutta, di pesca e cacciagione; Gaetano Cusati quadri di animali e di vasi ripieni di fiori; Gaetano Martoriello svariati paesaggi; Nicola Maria Rossi un Natale, un San Francesco, e la Decollazione di San Gennaro, e infine Giacomo Nani tele di frutta e scene campestri. Di tutte queste opere alcune soltanto esistono al presente, le altre furono trasportate in altre residenze dai vari componenti la famiglia Gaetani.
Dal palazzo si gode un magnifico panorama cui fanno corona i monti Compulterini e Tifatini, il Vesuvio e le montagne del Beneventano, mentre nella vasta pianura scorre lento il Volturno



Tra i personaggi che han vissuto nel palazzo c'è la contessa Aurora Sanseverino, nota anche come Aurora Sanseverino Gaetani (Saponara, 28 aprile 1669 – Piedimonte Matese, 2 luglio 1726), è stata una poetessa, attrice teatrale e mecenate italiana. Donna polivalente, appassionata di diverse forme di arte, fu anche tra i più importanti salottieri e committenti di musica del Regno di Napoli Di nobili origini, appartenente all'illustre casato dei Sanseverino, nacque a Saponara (l'odierna Grumento Nova, in provincia di Potenza), da Carlo Maria Sanseverino, principe di Bisignano e conte di Saponara, e Maria Fardella, contessa di Paceco. Il suo nome è probabilmente ispirato ad un dipinto del tempo realizzato dall'abate Giovanni Ferro, intitolato L'Aurora, in cui era raffigurata una bellissima fanciulla che spargeva fiori sul mondo.

Fin da bambina ebbe una personalità sveglia e intelligente, dedicandosi agli studi di svariate discipline come latino, filosofia, pittura e musica ma la sua vera passione fu la poesia. Su pressione del padre, un primo matrimonio, molto precoce, avvenne il 25 dicembre 1680, all'età di 11 anni, con il conte Girolamo Acquaviva di Conversano, ma durò solo qualche anno poiché rimase subito vedova e senza figli. Ritornò a Saponara per un breve periodo e compì diversi viaggi con il padre, a Palermo e Napoli.

Un secondo matrimonio avvenne il 28 aprile 1686 con Nicola Gaetani dell'Aquila d'Aragona, conte di Alife, duca di Laurenzana e principe di Piedimonte, a cui diede due figli, Cecilia e Pasquale. L'evento fu celebrato con una cerimonia fastosa a Saponara, in cui venne anche organizzato dal padre un dramma pastorale intitolato Eliodoro. Dopo il matrimonio, si trasferì nella dimora del marito a Napoli, città all'epoca caratterizzata da un'intensa vita culturale. Nella sua casa napoletana ospitò vari poeti, musicisti e pittori, dando così vita ad un noto salotto letterario. Oltre alla letteratura, fu un'abile cacciatrice, partecipando a battute di cinghiale sui monti del Matese. Nel 1695 si iscrisse all'Accademia dell'Arcadia di Roma, dove ebbe come maestro il canonico Giovanni Mario Crescimbeni ed assunse il nome di Lucinda Coritesia, componendo diverse poesie. La Sanseverino frequentò anche l'Accademia degli Spensierati di Rossano, presieduta da Giacinto Gimma, in cui conobbe artisti come Baldassarre Pisani e Andrea Perrucci. Fu anche parte integrante della Colonia Sebezia di Napoli e dell'Accademia degli Innominati di Bra. Per suo volere, venne fatto erigere a Piedimonte, vicino al Palazzo Ducale della famiglia Gaetani, un piccolo teatro in cui precedentemente vi era il seggio comunale. Nel teatro si tennero diversi spettacoli.

Nel 1699 venne inscenata una commedia, di autore ignoto, intitolata Marte e Imeneo, ove la Sanseverino partecipò come attrice. Il prologo venne musicato dal compositore bolognese Giacomo Antonio Perti, con il quale la poetessa ebbe un lungo contatto artistico ed una corrispondenza epistolare, conservata presso il Museo Bibliografico Musicale di Bologna.

Nel 1707 venne rappresentato Il Radamisto, melodramma di Niccolò Giuvo (librettista da lei protetto che visse presso la sua corte) e Nicola Fago. Vennero organizzate altre esibizioni teatrali come La Semèle di Giuvo, La cassandra indovina di Giuvo e Fago, Aci, Galatea e Polifemo di Georg Friedrich Händel. Quest'ultima fu eseguita anche a Napoli nel palazzo del duca d'Alvito per il matrimonio di sua nipote Beatrice Tocco Sanseverino con il duca Tolomeo Gallio Trivulzio e fu replicata nel 1711 nel suo teatro di Piedimonte per il matrimonio di suo figlio Pasquale. Al mecenatismo della Sanseverino si devono anche altre opere di compositori quali Francesco Mancini, Domenico Sarro, Nicola Porpora, Giuseppe Vignola, Giovanni Paolo de Domenico e Alessandro Scarlatti Oltre al teatro presso il palazzo ducale, la poetessa fece realizzare il "Conservatorio delle orfane" di Piedimonte (1711), che ospitò numerose fanciulle, fu dotato con 500 pecore e l’amministrazione fu affidata alla confraternita di Santa Maria Occorrevole; il "Convento delle Grazie", in cui i religiosi tenevano lezioni pubbliche per i fanciulli della zona e la "Chiesa dell’Immacolata Concezione dei Chierici Regolari Minori". Il suo ultimo periodo di vita fu contrassegnato da alcuni tristi avvenimenti come la morte dei figli Pasquale e Cecilia.

Morì nel 1726, all'età di 57 anni. Fu sepolta nella Chiesa dell’Immacolata Concezione, da lei fatta edificare. Gran parte della sua produzione è andata perduta, con soli pochi sonetti e alcuni stralci di commedie musicali a testimoniare la sua attività letteraria. Nel 1700, il teologo e poeta Carlo Sernicola dedicò a lei e suo marito Nicola D'Aragona l'opera Ossequi poetici. Giacinto Gimma la definì «una delle dame più letterate del secolo» e Niccolò Tommaseo dichiarò che i componimenti della poetessa furono «de' più sentiti ch'abbia la raccolta»